Grazie alla smisurata arroganza "destrista", i migranti sono percepiti dagli
italiani come degli sporchi parassiti portatori di criminalità e malattie.
Sono diventati numeri. Numeri che affogano o che non affogano. Numeri che
muoiono o che non muoiono. Numeri che purtroppo dobbiamo accogliere o che
fortunatamente non dobbiamo accogliere. Sono mere e fredde cifre.
Ma dietro alle statistiche ci sono persone. Guardando qualche
immagine di naufraghi, vedendo le ferite di questi malcapitati e ascoltando i
loro racconti strazianti, i numeri possono iniziare a prendere forma.
Trattasi di persone a cui è stata sottratta la gioia di vivere. Persone a
cui noi europei abbiamo strappato il passato (con il colonialismo), il presente
(costruendo Lager) e inevitabilmente il futuro (continuando a vendere loro armi).
Persone che nonostante gli abusi e le torture, coltivano ancora speranza. La
speranza in un futuro migliore. Un futuro senza carestia. Senza miseria. Senza
guerre. Senza molestie. Senza lacrime. La speranza in un
futuro dignitoso. La speranza di vedere la luce in fondo al tunnel. La speranza che i propri figli al mattino non siano svegliati dal rombo di una bomba o dalla notizia del decesso di un familiare.
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Se iniziassimo a guardare negli occhi dei profughi le nostre considerazioni in merito cambierebbero.
Capiremmo presto che sono esseri umani come noi. Capiremmo che non è una
pacchia quella che si sta consumando nel Mediterraneo. Capiremmo che non
esistono taxi del mare. Capiremmo che bisogna tendergli una mano in soccorso. Capiremmo che siamo
complici, che non si può essere neutrali. E infine capiremmo che solcando il
mare della xenofobia e del razzismo stiamo perdendo l'umanità che è in noi.
Le loro pupille ci racconterebbero di storie enormemente tristi. Pupille cariche di angoscia, depressione, pena e ancora una volta: di speranza. Pupille testimoni di umiliazioni. Pupille porta voci di violenze. Pupille che hanno visto la morte sfiorarli. Pupille che se possono narrarci tutto ciò è perchè sono state graziate da un pizzico di fortuna.
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Josefa. Donna camerunese. Ecco le sue prime parole dopo essere stata salvata dalla Ong Open Arms: "Non in Libia. Non in Libia. Non portatemi in Libia" |
Ma come possono i nostri "discorsi difficili" far fronte
all'infinita semplicità degli slogan anti-naufraghi? Come puó l'articolato
buon-senso di "noi" "sinistri" persuadere gli elettori e
l'opinione pubblica? Insomma:Come è possibile che la retorica
"folta e voluminosa" (quasi "barocca") pro-migranti possa persuadere un popolo drogato da
"frasi fatte" dallo stampo "minimalista"? In sintesi: Cosa
possono fare i nostri lunghi e noiosi discorsi contro l'infinitesima brevità
dei messaggi dei vari Salvini, Meloni ecc?
Se la nostra retorica non è capace di crearvi un nodo in gola, se essa non
vi fa luccicare gli occhi e non vi fa riempire il cuore di angoscia e
consapevolezza neanche quando si parla di morte, spero che possa fare tutto ció
la voce rauca di chi l'inferno libico l'ha vissuto. Spero che le
testimonianze di chi ha passato mesi nei deserti sudanesi e nottate nelle
gelide acque del mediterraneo possano far si che in voi si riaccenda l'amarezza
e il dolore tipico di chi prova empatia. Spero tanto che immergendovi nella
lettura dei racconti di queste persone possiate riconoscere in loro degli
uomini mossi dalla sopravvivenza. Spero che smettiate di vederli come dei numeri.
Spero che smettiate di vederli come invasori. Spero che dopo le toccanti parole
che seguiranno, chi attraversa quella linea immaginaria chiamata confine sia
considerata come una persona e non come un parassita.
Ma spero anche che vi immobilizziate di fronte alle parole che seguono.
Spero con tutto me stesso che possiate iniziare a capire che è stato fatto di
tutto da qualche media e da alcuni politici per far perdere a questi uomini e
donne la loro umanità, in modo tale da farvi sentire legittimati a dire: ”Dovete
affogare”; “Andatevene neg*ri”; “Siete dei rifiuti umani" e molte altre calunnie non menzionabili.
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Quelle che seguono sono le parole di alcuni migranti interrogati in alcuni
centri di accoglienza italiani.
Lasciate che queste testimonianze facciano breccia nei vostri cuori e non permettete ai pregiudizi di non farvi "restare umani".
Buona lettura.
“Meglio morire in mare che stare in Libia. In mare si
muore una volta sola, se stai in Libia è come se morissi tutti i giorni”.
Bakary ha poco più di 16 anni, è un minore ospitato in una struttura di
accoglienza in Calabria. Viene dalla Guinea Bissau e ha raggiunto la Libia
attraverso il Gambia, quattro settimane di viaggio nel deserto. “I letti dove
dormivamo in Libia erano pieni di insetti, avevamo pagato per il viaggio, ma
nell’attesa dovevamo lavorare per i padroni del posto. Gratis, come schiavi.
Chi si rifiutava veniva picchiato. Ho visto gente morire sepolta a pochi metri
da dove dormivamo”.
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“Mi chiamo Abdel B.M., sono di origine eritrea e ho vent’anni. Sono andato
in Libia per tentare la traversata, ho pagato 500 dollari ma forse la somma non
bastava ai trafficanti. Mi hanno sequestrato e portato a Misurata, nel golfo
della Sirte. Ero uno schiavo, mi facevano lavorare senza pagarmi. Nel capannone
eravamo in 200 almeno, dormivamo per terra e avevamo poco cibo, l’acqua era
sporca e non c’erano servizi igienici per i nostri bisogni. Le donne venivano
violentate, gli uomini offesi e picchiati. Per convincermi a farmi mandare i
soldi dai miei genitori e pagare il viaggio mi hanno torturato. Una notte degli
uomini armati sono entrati nel capannone e hanno prelevato un gruppetto di
eritrei. Erano ubriachi e drogati, e hanno fatto correre gli eritrei mentre
loro sparavano, li usavano come bersagli mobili. Sparavano e ridevano come
diavoli. Ho visto almeno due persone cadere a terra colpite”.
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Evidenti segni delle torture subite nei campi di detenzione per immigrati in Libia. |
“Mi chiamo Mohammad B. e sono nato a Damasco nel 1985. In Siria ero un
bracciante agricolo, nel 2013 ho lasciato il mio Paese per il Libano, da qui
volevo raggiungere il Sudan per poi tentare la traversata in Europa attraverso
la Libia. Ho pagato mille dollari a un mediatore siriano di nome Mahmoud per
arrivare in Sudan. Da qui ho raggiunto la frontiera libica con un fuoristrada
condotto da un altro sudanese membro dell’organizzazione che ci ha consegnato a
dei libici. Erano in due e con un altro fuoristrada ci hanno portati ad
Agjdabya, in Cirenaica. Il nostro campo era un lager sorvegliato da guardie
armate. Eravamo in 150, non potevamo uscire, eravamo prigionieri, ci davano un
panino e acqua salata ogni 24 ore. Ci picchiavano, non c’erano bagni e
dormivamo per terra. Sono rimasto in questo posto per 11 giorni. Il capo del
campo si chiama Abou Laabd. Una notte ci hanno caricati su un camion, coperti
con dei teli e trasferiti in un villaggio in mezzo al deserto, qui ci hanno
scaricato in una stalla dove c’erano mucche, capre e pecore, abbiamo dormito
con gli animali per due giorni. È stato il momento peggiore, le guardie ci
hanno tolto tutto, chi protestava veniva picchiato con il calcio dei fucili.
Non ne potevamo più e una notte siamo scappati. Abbiamo raggiunto un’altra
città dove un tale Salem, libico, ci ha ospitati per una notte prima di
consegnarci a Moamamar, anche lui libico. È un trafficante e per 900 dollari ci
ha portati sulla spiaggia dove c’era un gommone di 12 metri circa che da lì a
poco sarebbe partito per l’Italia.
Eravamo non meno di 150. Siamo partiti di notte e abbiamo navigato in
quelle condizioni per due giorni, non avevamo cibo e acqua, il gommone
imbarcava acqua. Fortunatamente siamo stati avvistati da una nave della Marina
italiana che ci ha salvati."
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“Il mio nome è Gabresellah H. sono nata nel 1991 in Eritrea. Ho vissuto per
dodici anni a Karthum, facevo la domestica, il mio sogno era andare a Londra,
ho contattato un sudanese che organizzava viaggi verso l’Europa. Per 1.600
dollari si è offerto di portarmi alla frontiera con la Libia. Siamo partiti a
maggio 2014 in un camion con altre 98 persone. Dopo sette giorni siamo arrivati
nella città libica di Ajdabia. Qui ci hanno chiusi in una casa, eravamo
prigionieri. Chiedevo in continuazione a un libico quando sarebbe arrivato il
mio turno per andare in Italia. Lui non rispondeva mai. Dopo un mese siamo
stati portati a Tripoli in camion. Anche in questa città siamo stati rinchiusi
in una casa, ci sorvegliavano uomini vestiti di nero e incappucciati. Il loro
compito era selezionarci per sesso e religione. I musulmani potevano proseguire
il viaggio, i cristiani no, venivano uccisi dagli incappucciati. Le donne
cristiane che avevano pagato il viaggio venivano risparmiate. Ci siamo
imbarcati il 7 maggio, dopo ore di navigazione ci ha salvati una nave da guerra
tedesca”.
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“Sono Mbdao D. ho 25 anni e vengo dal Senegal. Prima sono stato in Niger,
lì ho incontrato un altro senegalese di nome Diof al quale ho dato 1.200
franchi senegalesi per farmi raggiungere il confine con la Libia. Eravamo in
tanti, ci hanno caricati su un pick-up e portati a Tripoli dove mi sono fermato
15 giorni alla ricerca di qualcuno dell’organizzazione. Il mio contatto era un
soggetto di nazionalità gambiana che tutti chiamavano “Lo zio”: era lui il
mediatore per il viaggio, chiedeva 300 mila franchi senegalesi. Non avevo quei
soldi, ma la somma richiesta l’avrebbe versata mio fratello su un conto
corrente intestato allo Zio. Solo quando i soldi sono arrivati mi hanno
trasferito a Zuara, nella Libia nord occidentale, dove sono rimasto sette
giorni. Ci hanno imbarcato di notte, dopo almeno tre ore di attesa sulla
spiaggia. Salivamo in 30 sui gommoni che ci portavano alla barca, un natante di
colore blu non grandissimo. Eravamo in cinquecento e la barca era condotta da
tre soggetti, uno al timone, un altro al controllo del motore e un terzo che
sorvegliava noi immigrati. Non ci hanno maltrattato durante il viaggio, ma non
ci davano da bere. La barca era vecchia e in pessime condizioni, noi eravamo
ammassati uno sull’altro, quando il natante cominciò a imbarcare acqua avemmo
paura, il terzo uomo ci ordinava di svuotare la barca con i secchi. Dopo 13 ore
di navigazione abbiamo avvistato una nave grande di colore blu e con l’immagine
di una tigre, o forse era un cane, non ricordo. È successo l’inferno, a bordo
non ne potevamo più, volevamo solo uscire da quella barca che stava affondando
e che mai sarebbe arrivata in Italia. Così ci spostammo tutti su un fianco, la
barca ondeggiò fino a capovolgersi. Finimmo in acqua. L’acqua era gelida, chi
non riusciva a nuotare affogava, ne ho visti tanti muovere le braccia, urlare,
piangere e poi finire inghiottiti dal mare. Con me c’era mio fratello di 18
anni, si chiamava Khamid, non l’ho più visto, forse è annegato. Gli scafisti,
voi li chiamate così, sì, li so riconoscere. Il capitano era un africano,
l’addetto al motore un nordafricano, un altro era africano ed era quello che ci
ordinava di svuotare la barca, due di loro parlavano la lingua wolof del
Senegal, il terzo parlava arabo. Sì, sono loro, li riconosco”.
Ora, dopo aver sentito tutto ciò, se il vostro innato individualismo vi
frena nell'impresa di vedere i migranti come dei disperati che fuggono da
situazioni precarie, non mi resta altro che chiedervi: E se ci fossi tu su quel
barcone?; E se fossi tu quella persona costretta a stare in mare per 17 giorni
solo perchè un ministro deve seminare odio e paura per raccogliere consensi?:
Oppure: E se fosse tuo figlio/a a piangere in mezzo alle onde?; E se fosse tuo
figlio/a quel ragazzo che deve aggrapparsi a cadaveri di altri profughi pur di
non morire nel mare e nell'indifferenza?
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Michael Erasmo Alliegro
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