Nel mondo globalizzato, ipertecnologico e splendente in cui pensiamo di vivere esiste uno sputo di inferno, un dominio del diavolo a cui è stato dato un nome ben preciso: Corea Del Nord.
All'interno di questo limbo infernale ci sono alcuni gironi che neanche il Dante più spietato avrebbe mai potuto immaginare, i gulag. Trattasi di campi di concentramento in cui l'umanità scompare e ogni parvenza di libertà svanisce. Qui, in uno di questi campi, nasce Shin Don-Hyuk, il protagonista della storia di oggi.
Shin, essendo nato tra le buie recinzioni di un lager, non sa cosa sia il mondo. Non ha idea di cosa sia la vita fuori da quel luogo di strazi e pianti, così come non ha idea di cosa possa essere quella che noi definiamo "normalità".
Per lui, fin dalla nascita, esiste solo il lavoro. Non conosce affetto, amore, amicizia, pietà, compassione, umanità, solidarietà, generosità nè indulgenza o benevolenza.
Questi termini, per Shin, non solo altro che parole di cui ignora il significato.
È stato "educato" a calci e pugni in virtù di un principio semplice: lavora e avrai un po di minestra.
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La fame, il freddo e la disperazione hanno forgiato la sua mente e il suo carattere. Gli hanno fatto credere che la vita fosse fatta solo di torture, fisiche e psicologiche, e che, quando subiva un pestaggio, se l'era meritato. D'altronde, la sua esistenza era semplice da spiegare. Era una continua lotta per la sopravvivenza. La mattina si doveva alzare prima che il sole sorgesse, doveva spaccarsi la schiena lavorando per almeno una dozzina di ore e la sera poteva ricevere qualche avanzo di cibo. Avanzi che spesso gli venivano negati o che, più banalmente, non c'erano a causa della carestia che vide come protagonista l'intero paese della dinastia Kim, figuriamoci i gulag in cui era internato Shin.
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La mancanza di cibo era (paradossalmente) l'unico motore che lo teneva in vita. La ricerca di quest'ultimo motivava le sue giornate. Sfamarsi era il suo unico pensiero. L'idea del cibo lo teneva sveglio la notte, gli dilaniava lo stomaco e offuscava la mente. Ingurgitare qualcosa era un pensiero fisso, l'unico scopo di una vita destinata alla schiavitù.
Le torture, anch'esse, erano all'ordine del giorno. Non raggiungere l'obbiettivo lavorativo giornaliero significava essere torturati. Guardare in faccia un insegnante significava essere torturati. Sorridere significava essere torturati. In effetti, qualsiasi gesto o azione da parte dei detenuti poteva dar motivo agli uomini in divisa di scatenare la propria furia. Le violenze, come già ho sottinteso, non scalfirono solo il corpo di Shin, ma anche la sua anima.
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Certo, la sua pelle è tutt'ora una cartina geografica dell'orrore, dove si possono riconoscere tutti i tipi di vessazioni, ma fu la sua psiche a dover pagare il prezzo più oneroso. Egli, infatti, si dovette convincere che non c'era posto per la magnanimità in quel esperimento Darwiniano di cui faceva parte.
La lotta per la sopravvivenza cancellava ogni forma di affetto.
Conosceva solo l'odio. Un arma che Shin non puntava verso le guardie o verso la dittatura nord-coreana responsabile della sua miseria, ma verso la madre. Colei che gli aveva dato la vita era per Shin la fonte di ogni male. La odiava con tutto se stesso. E, quando lei tentò la fuga dal campo assieme al fratello, il nostro protagonista non ci pensò due volte prima di denunciarla (destinandola così a morte certa).
L'ultima volta che incrociò il suo sguardo lei aveva un cappio al collo e stava per essere impiccata (proprio a seguito del tentativo di evasione smascherato da Shin). Egli vide il suo corpo penzolare; il corpo di colei che gli aveva dato la vita. Eppure non mostrò rammarico nel vederla morta. Anzi, era sollevato. Per Shin il mondo era tutto buio. Non era stato strappato da una vita normale per essere spedito nel gulag (così come la maggior parte dei detenuti) quindi non sapeva cosa volesse dire essere un figlio, nè la differenza tra giusto e sbagliato. Esistevano solo le regole del campo. Questo schema mentale iniziò a cambiare quando entrò in contatto con un uomo di Pyongyang, un tale Park.
Ovviamente erano entrambi degli schiavi ed in quanto tali non gli era permesso parlarsi per nessun motivo. Park, però, ignorò questa regola e cominciò a raccontare a Shin alcuni aneddoti. Gli parlò di com'era il mondo là fuori, della felicità, del cibo buono. Gli spalancò la mente e gli orizzonti.
Per la prima volta Shin ebbe motivo di credere che c'era la luce in fondo al tunnel. Dopo un po di tempo dalla loro prima conoscenza, Park gli propose la fuga, e Shin, fidandosi, accettò. Il piano non era complesso. Dovevano scavalcare la recinzione e una volta fuori incamminarsi verso la Cina. Le cose, però, non andarono come previsto. Quando Park oltrepassò la recinzione elettrificata rimase morto folgorato e Shin dovette passargli sopra per non fare la stessa fine.
A 23 anni, finalmente e nonostante tutto, era un uomo libero. Libero col corpo, ma non con la mente. Oggi è un normale cittadino della Corea del Sud ed ha una famiglia, eppure i ricordi dell'inferno vissuto sono ancora vividi, i dolori passati non sono finiti nel dimenticatoio ed ogni tanto è assalito da depressione e scatti di nervosismo. Shin è stato fortunato.
È scappato da quell'inferno sulla terra e si è fatto una vita, con le comprensibili difficoltà del caso. Eppure, lui è l'unico nella storia ad essere fuggito da quel campo, dal Campo 14.
Centinaia di migliaia di persone come lui non ce l'hanno fatta. Innumerevoli sono morti per il freddo, la fame, le condizioni igienico/sanitarie e per le botte, e tutt'ora sono circa 200.000 gli innocenti rinchiusi nei lager del dittaotore Kim.
Lager ben visibili perfino su Google Earth, ma di cui i leader politici mondiali ignorano l'esistenza. Come è possibile che ogni anno commemoriamo l'olocausto degli ebrei e ci indignamo per gli orrori commessi dai nazisti ad Auschwitz se l'unica cosa che siamo stati in grado di fare di fronte alle "fucine della morte" nordcoreane è stato voltarci dall'altra parte?
I gulag in questione esistono da almeno 40 anni, cosa stanno aspettando le democrazie mondiali per interrompere questa danza della morte? Perché l'ONU non fa altro che dare sfoggio della propria vacua retorica? Perché non agire in nome di quei diritti umani tanto cari all'occidente?
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Michael Erasmo Alliegro
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