La fama dell’Orlando Furioso viene assorbita nei secoli che seguono l’epoca rinascimentale, per essere
visibile anche nei giorni nostri su tutti i libri che si fanno portavoce della storia della letteratura italiana.
Infatti, tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di analizzare la materia ariostesca sono testimoni
dell’importante, direi quasi fondamentale, ruolo che il poeta incarna nel panorama artistico
cinquecentesco.
Viene di fatti definito dalla critica come un artista non un poeta, come colui che è stato
capace di manipolare l’arte , di plasmarla con la propria immaginazione; come colui che, con pennellate
forti e decise, ha saputo dipingere la realtà contorta e ancora incompleta che stava prendendo vita in quel
tempo, frutto dello scontro tra l’umidità e l’oscurantismo del Medioevo e la luce, ancora fioca, della futura
modernità.
Questa era infatti la realtà concepita da Ariosto: distante, inconciliabile con la propria concezione di
perfezione, incompleta nel suo percorso di mutamento e formazione condotto direttamente da un uomo
sempre più fiducioso in se stesso, disposto a guardare il mondo con gli occhi di chi è stanco di seguire orme
tracciate da altri e a utilizzare il proprio ingegno per livellare la strada di un sentiero indipendente: il
proprio sentiero.
Ma si sa, tutti i cambiamenti implicano uno stato di indecisione. Il nuovo spaventa. Arriva sempre, prima o
poi, quel momento in cui comincia a far paura, la stessa paura che impedisce di portare avanti ciò che si sta
facendo e che spinge a tornare indietro sui vecchi passi. Ma non si può tornare indietro, non quando ci si è
già resi conto che ciò che è stato non calza più; quando si arriva a capire che il passato è stato già
soppiantato dall’idea di perfezione del futuro che si vuole raggiungere a tutti i costi.
E’ proprio in questi momenti che si capisce che i latini avevano ragione nel momento in cui affermavano
che “Omnia tempus habent” – “Ogni cosa ha il suo tempo”. La bellezza della cultura medievale ,che ha
trovato in Dante e in molti altri i suoi principali rappresentanti, stava lentamente perdendo di consistenza
poiché costruita su ideali non più riconosciuti dall’intelletto di Ariosto e dell’uomo moderno in generale.
Il mondo cavalleresco, per esempio, risponde perfettamente alle coordinate dell’ottica appena enunciata.
“Questo mondo cavalleresco” scrive il De Sanctis “ tolto alle ombre e ai vapori e ai misteri del medioevo è
illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. […] A questo mondo cavalleresco egli non ci
crede, pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui che a tutto il
mondo che lo circonda”.
“Pur se ne innamora” afferma il critico. E’ vero: Ariosto se ne innamora. Ne rimane colpito, ammira la
bellezza e il rispetto che tale concezione si era costruita nei secoli. L’aura dei valori della gentilezza, nobiltà
d’animo, distacco da ogni forma di viltà vivevano ancora nell’anima letteraria di Ariosto, alimentati dal più
puro rispetto che questi nutriva nei loro confronti. Un rispetto a cui non avrebbe mai potuto affiancarsi,
tuttavia, la voglia di crederci. De Sanctis, infatti, continua così:
“Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a
realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa
del Risorgimento”.
E’ l’individualismo, in Ariosto, a prendere il sopravvento su quella dimensione collettiva per cui gli stessi
cavalieri si erano tanto battuti tra le righe di storie e poemi della tradizione precedente. Una dimensione
che aveva affascinato tanto il nobile pubblico delle corti, quanto il cittadino sempliciotto e poco istruito che
si recava nelle piazze per ascoltare i cantori.
Il decesso della dimensione collettiva e il trionfo di quella individuale rientrano, inoltre, nei limiti di quella
società “..così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca d’immaginazione come povera
coscienza” che l’Ariosto osserva con il filtro della criticità e della superiorità dell’intellettuale che crede
fortemente nella purezza e nell’autenticità del mondo. Valori, questi, che tuttavia non sono all’altezza dell’uomo rinascimentale, consapevole di poter manipolare la realtà e di rendere protagonista un ingegno
ancora parzialmente stordito dall’oscurantismo medievale, da cui tenta inutilmente di evadere.
In questo contesto, è necessario far presente anche il disordine politico che contribuì a decorare il fresco
disegno rinascimentale.
La frammentazione della penisola in tanti piccoli regni che cercavano di prendere inutilmente il
sopravvento l’uno sull’altro e la nuova minaccia dell’avanzata dei Turchi Ottomani, responsabili
dell’Assedio di Vienna del 1529 , contribuirono a riscaldare il clima di tensione che si stava diffondendo
nell’Italia del tempo. Fattori a cui va certamente sommata la polemica contro la corte che Ariosto presenta
più volte nel suo capolavoro. Non bisogna sottovalutare, infatti, il ruolo che il poeta stesso svolgeva in
questa nuova realtà.
Ariosto era perfettamente integrato nel mondo cortigiano, dal momento che serviva
prima come funzionario e poi come intellettuale la rispettabile famiglia degli Estensi a Ravenna. E’ proprio
tale famiglia che lo stesso si propone di elogiare attraverso la storia di Ruggiero e Bradamante nell’Orlando
Furioso. E’ sempre la corte a suscitare in lui il desiderio di far trionfare la sua libertà artistica rimasta
soffocata dal volere degli Estensi. Ma è questa stessa condizione di subalternità che limita la voglia di
essere indipendente e di dare libero sfogo alla sua fantasia. E’ un odio, quello che matura verso la corte,
alimentato ancor più dalle ingiustizie e dall’ipocrisia di coloro che animano tale ambiente: i cortigiani.
“ Se, come il viso, si mostrasse il core,/ tal ne la corte è grande e gli altri preme,/ e tal è in poca grazia al
suo signore,/ che la sorte muteriano insieme. / Questo umil diverria tosto il maggiore:/ staria quel garnde
infra le tube estreme.”
Un critica che non si limita al passo su citato di “Cloridano e Medoro”, ma che investe fortemente l’intero
poema per trovare il suo più esplicito riferimento nelle ottave che raccontano l’episodio di Astolfo sulla
luna. Il cavaliere, infatti, non troverà soltanto il senno di Orlando nel mondo incantato del paesaggio lunare,
ma vedrà con i propri occhi recipienti di vetro di vari tipi in frantumi corrispondenti ai servizi dei cortigiani;
i vani onori dei principi e i favori che danno inizialmente ai loro favoriti; o ancora la ragione perduta non
solo per amore , per gli onori e per la bramosia di ricchezze, ma anche per “le speranze de’ signori”.
Unar Critica questa, che Ariosto rivolge indirettamente a se stesso oltre che al resto dell’umanità. Non vale la
pena, per il poeta, dedicare il poco tempo che si ha a disposizione in questa vita precaria e instabile ad
ambizioni vane e inconsistenti. Non è produttivo prestare attenzione a progetti inconcreti e irrealizzabili. E’
bene, piuttosto, sfruttare l’intelligenza per focalizzare l’attenzione su ciò che conta davvero nella vita, ciò
che può rendere l’uomo sereno, che può farlo sentire in equilibrio con se stesso e con gli altri. E’ proprio
vero, quindi, che la felicità va ricercata nella modestia, nella semplicità, nelle piccole cose. Un autenticità,
quella a cui aspirava Ariosto, ben lungi dagli obiettivi dell’uomo rinascimentale che, impegnato ad utilizzare
la ragione per appagare desideri di grandezza, si mostra cieco dinanzi a tale moderna concezione.
Concezione che forse anche gli uomini di oggi fanno fatica a comprendere.
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