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ABDULLAH KURDI , IL PIANTO INFINITO DI UN PADRE

Mi permetto di raccontarvi alcune pagine della drammatica storia di Abdullah Kurdi, padre di Alan Kurdi: il celebre "bambino sulla spiaggia".

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Abdullah nasce a Damasco e trascorre una serena fanciullezza in Siria giocando e scorrazzando per le strade della città con i suoi compagni e fratelli curdi. Dopo un'adolescenza degna di essere chiamata tale, la sua vita viene presa a calci da una notizia sconvolgente, che, come un fulmine, si abbatterá su quest'ultimo, ne scandirá l'esistenza e gli cancellerá per sempre il sorriso dal volto: lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante sta bussando, a suono di colpi di mortaio, alle porte della capitale siriana. 
Ciò significa morte, distruzione, violenze, barbarie ed inevitabilmente... Emigrazione. Innumerevoli migliaia di civili, che fino a poco prima vivevano sicuri nelle loro tiepide case, si ritrovano a dover scappare senza una meta. A doversi trarre in salvo. A dover dire addio alla quotidianità. 

Anche la maggior parte della famiglia Kurdi, per forza di cose, deve lasciare la terra che gli ha dato i natali ed intraprendere la tortuosa ed incerta strada dell'esodo. Fu così che Abdullah si ritrovò a Kobane, città in cui, da rifugiato, trovò moglie e concepì un bambino splendido.  Dopo pochi mesi dall'arrivo di Abdullah nel cuore pulsante del Rojava, i terroristi del Califfato conquistarono gran parte della Siria e puntarono la propria bussola in direzione della Turchia. A separare fisicamente gli estremisti capeggiati dal sanguinario leader Al-Baghdadi dalle terre anatoliche, però, c'era ancora una città: quella in cui il nostro Abdullah stava cercando di costruire una famiglia lontana da spargimenti di sangue e rombi di cannone, parlo proprio di Kobane. Fu così che, nel 2014, le lunghe barbe dei soldati dell'ISIS si spostarono nella città appena citata per dilaniare l'esperimento democratico che si stava mettendo in atto ed esportare la Jihad.

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Sullo scontro che vide contrapporsi alle milizie jihadiste quelle kurde dell'YPG si potrebbero aprire ampie parentesi ma mi limiterò a dire che questa guerriglia, tanto per cambiare, determinò: morte, distruzione, violenze, barbarie ed inevitabilmente... Immigrazione. Ancora una volta Abdullah, con le lacrime agli occhi, era costretto a salutare gli affetti e portare al sicuro sé ed i propri cari. 

I tre fecero rotta verso Istambul. Rehanna e Ghalib, rispettivamente la moglie ed il figlio, giunsero a destinazione in un primo momento, mentre Abdullah li raggiunse successivamente. Questa scelta di non partire immediatamente, seppur obbligata, gli fu fatale, poiché egli nel varcare il confine turco venne intercettato da alcuni terroristi, scambiato per chissà chi, rinchiuso in una cella e torturato. Le "persone" che lo bloccarono nel tentativo vano di fargli uscire dalla bocca delle informazioni a lui ignote  gli cavarono tutti i denti e lo sottoposero ai dolori più atroci ai quali un uomo può far fronte. Dopo mesi e mesi venne rilasciato e, con una trentina di denti in meno, con una forte rabbia dentro e con la disperazione radicata nel cuore potè raggiungere finalmente ciò che più amava: sua moglie e suo figlio. Ad Istanbul, però, la situazione non era delle migliori. Per poter pagare l'affitto di un monolocale fatiscente perfino Ghalib doveva lavorare. Si, anche un bambino di pochi anni doveva portare qualche soldo a casa per tirare avanti. La situazione, giá di per sé malinconicamente incommentabile, non fece altro che peggiorare, quando Rehana partorì un bambino: Alan
Alan Kurdi. 

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Ecco Abdullah con Ghalib e Alan

Ora c'era un'altra bocca da sfamare, ma le entrate continuavano ad essere insufficienti. Abdullah lavorava tutto il giorno in officina e, per risparmiare, vi ci dormiva, ma ciò non bastava. Vivere in terra straniera si era dimostrato inverosimilmente ostico in quanto, oltre a condizioni economiche piuttosto precarie, i curdi erano visti dai turchi come nient'altro che un male societario. Come dei parassiti. Erano, come sempre accade ai profughi, il perfetto capro espiatorio a cui dare le colpe di qualsiasi malessere o di qualsiasi mancanza. In altre parole, erano il nemico perfetto su cui puntare il dito, su cui accanirsi e a cui andavano sottratti dignità e diritti per alimentare la propaganda dell'odio e la subcultura del diverso come virus da abbattere. Insomma, la vita da migrante si era rilevata colma di affanni, dolori e malessere, ed era, forse, finanche peggiore delle "vita" da siriano morto sotto le macerie.

Allontanarsi da una guerra fisica equivaleva avvicinarsi ad una psicologica, che andava combattuta giorno per giorno, con determinazione e senza lasciarsi andare allo sconforto.
Quando, però, iniziò a mancare il pane a tavola e Abdullah perse il lavoro che gli garantiva quei pochi spiccioli, la situazione divenne veramente malconcia ed insostenibile. Così, grazie ai soldi spediti dal Canada da una parente, Rehanna, Alan, Abdullah e Ghalib scelsero che volevano l'Europa. Volevano imbarcarsi su una nave e raggiungere le coste greche per mettersi alle spalle la povertà e la fame e poter iniziare a sperare in un avvenire degno di essere chiamato tale. Avevano preso questa decisione e non volevano tornare in dietro. O l'Europa o niente. Meglio rischiare la vita in mare anziché vivere di stenti ed elemosina. Nonostante né Rehanna, né Ghalib, né il piccolo Alan sapessero nuotare, Abdullah, spinto dalla disperazione, contattò un trafficante e pagò 4.000 dollari per dei posti su una nave comoda che poi si rivelò essere un gommone fatiscente. Per due volte tentarono la traversata dalla sponda turca a quella europea e per due volte vennero intercettati dalla guardia costiera e portati indietro. La terza volta, però, fu quella fatale. La misera imbarcazione su cui si trovavano venne schiaffeggiata dalle onde e si ribaltò. Inutili furono i tentativi di Abdullah di tenere a galla sia sua moglie che i suoi due figli. Questi annegarono per poi essere ritrovati senza vita sulla spiaggia. Abdullah, invece, riuscì a sottrarsi dal morso della morte, ma ciò non rappresentava nulla di positivo per lui. 

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Aveva perso la sua famiglia, li aveva visti morire impotente ed ora era solo, in terra straniera, senza nessun amico, parente o conoscente che potesse quantomeno provare a consolarlo o a fargli da bastone. Era una catastrofe nella catastrofe. Una tragedia nella tragedia. Ci volle moltissimo per ricucire questa ferita nel cuore per Abdullah ed anche dopo mesi dalla scomparsa di Alan, Ghalib e Rheanna, lui continuava a tormentarsi. Era ritornato a Kobane, ancora sotto attacco, per poter dormire tutte le notti al fianco delle tombe della sua vecchia famiglia. Solo dopo che i media internazionali lo misero sotto i riflettori, divenne una persona. 

Fino a prima doveva vivere, come ho già detto, di stenti e di elemosine. Ora invece era accolto in pompa magna da tutti i leader politici mondiali. Era osannato da tutti e l'opinione pubblica lo lodava. Ma lui continuava a chiedersi: "Perché solo ora che è troppo tardi?
"Perché non sono stato aiutato prima?"

Queste domande restavano senza risposta e non facevano altro che continuare a dilaniarlo dentro, ma Abdullah, pur conscio che nulla si potesse fare per la propria famiglia, si ripropose di aiutare i più bisognosi. Decise, insieme a sua sorella, di mettere sotto la propria tutela i bambini che, come i suoi figli, vedevano come unica prospettiva di vita quella di rischiare di annegare in mare per toccare il suolo occidentale.
Ora Abdullah gestisce un'associazione benefica pro-rifugiati e ha fatto dell'accoglienza e della vicinanza ai più deboli il suo scopo di vita. 
Seguono alcune sue dichiarazioni:
"Ogni volta che vedo un ragazzino con una maglietta rossa - afferma - il cuore mi brucia nel petto. Non c’è giorno che non pensi ad Alan, a Ghalib, a mia moglie Rehanna. Il mio unico scopo, adesso, è proteggere i bambini. Ovunque, anche in strada. Quando li vedo sporgersi dai finestrini delle auto, vado a rimproverare i genitori".
Parlando di Carola Rackete "è una donna forte, un'eroina. So che è stata anche messa in prigione. Beh, se dovesse servire, sono pronto a farmi arrestare anch'io", afferma Abdullah Kurdi che si definisce "contento" che la nave della Ong tedesca Sea-Eye si chiama Alan Kurdi come il suo bambino e annuncia: "Mi imbarcherò sulla nave per salvare i migranti. Voglio tendere loro la mano che a me non fu tesa".


Michael Erasmo Alliegro

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