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L'UOMO E LA GRANDEZZA DELLA SUA MISERIA


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Miriam Cardone
Un’eco di grandezza risuona nei secoli dell’umanità. Sublimità, magnificenza, perfezione: sono tutti termini, questi, che le menti di eccelsi pensatori hanno illuminato con le loro intelligenze, rispolverandoli dagli abissi dell’oblio e attribuendoli infine a quella misteriosa realtà che amiamo definire “uomo”.
"Molte sono le realtà eccezionali, ma nulla è più eccezionale dell'uomo" si legge nell’Antigone, tragedia del poeta greco Sofocle. Come dargli torto? Non è  certamente da tutti riuscire a sfiorare l’idea di infinito, di eternità semplicemente chiudendo gli occhi e lasciando quelle ineguagliabili menti che gli esseri umani si ritrovano libere di vagare, di navigare tra le onde dell’inimmaginabile, di valicare i confini del conoscibile e di arrivare ad abbracciare l’essenza della profondità dell’ignoto. Ciò non sarebbe di certo da tutti se qualcuno riuscisse a provare che non sia solo una remota convinzione. Perché è questo che sono le certezze dell’uomo: insulse e remote convinzioni.
Tutto ciò che sembra esistere trova il limite nel su contrario: l’acqua affievolisce il calore del fuoco, la morte pugnala la vita alle spalle, il dolore frantuma i fragili tasselli di felicità che la gioia lentamente e faticosamente tenta di assemblare, l’odio si diverte a disperdere la linfa vitale dell’amore, l’arroganza, con la sua ombra, occulta facilmente la fioca luce dell’umiltà. Allo stesso modo, è consequenziale arrivare a pensare che la paura possiede l’incontrastabile potere di ferire l’esile corpo della speranza, l’unico appiglio a cui l’uomo può tentare di aggrapparsi per non annegare nella sua stessa essenza, nella sua stessa condizione di miserabile.
Con la sua intelligenza l’uomo ha escogitato il modo di solcare il mare e di coltivare la terra; con inventiva ha appreso a cacciare gli animali terrestri e marini e ha posto al suo servizio il bestiame domestico, cavalli e tori; ha sviluppato la parola, il pensiero, la capacità di difendersi dalle insidie della natura, provvisto di espedienti per ogni evenienza, mai sprovveduto va incontro al futuro” continua Sofocle. Ma allo stesso tempo, aggiungerei, con la sua presunzione l’uomo è stato ed è in grado di accarezzare l’ingenuo spirito di quella che lui stesso chiama umanità per illuderla e lasciarla morire lentamente una volta storditala con il veleno del suo ormai presagibile egoismo.
E’ l’egoismo a regnare sovrano e a fare di quell’ammaliatrice che chiamiamo ambizione la sua regina. Serviti dalla fedele e invitta presunzione, i due sono in grado di vincere qualsiasi battaglia. Anche quando la giustizia sembra star avanzando vittoriosa sul campo di guerra, quando si ha l’impressione che la sensibilità e l’indulgenza stiano avendo la meglio, il loro devoto scudiero arriva silenzioso a trafiggerli con il suo invincibile pugnale, divertendosi a veder esalare l’ultima brezza del loro debole respiro.
 Come non lasciarsi trascinare dall’impeto del più acceso e sofferto pessimismo in una realtà in cui ogni giorno si assiste alla sconfitta della rettitudine? Una sconfitta alle volte auto-inflitta se si è capaci di osservare attentamente le dinamiche dello scontro. Perché è la grandezza che, appena ne ha la possibilità, soggiogata dalla sua estrema timidezza, si nasconde dietro la sua stessa ombra, nonostante la forza incontrastabile che le è propria,la spinga a combattere, a mettersi a nudo sul campo di battaglia. E’ così che l’arroganza degli stolti trova terreno fertile per germogliare, rinvigorendosi ogni giorno di più, mentre gli occhi dei grandi rimangono nascosti e incapaci di intervenire per porre fine al soffocante spettacolo a cui la loro stessa apatia ha dato vita.
E’ così che la miseria si fa strada tra le silenziose urla della grandezza, fiera e altezzosa nella scialba consapevolezza della sua inesistente virtù.
“Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, un
qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto” scrive il filosofo Pascal nella sua opera “Pensieri” delineando un giudizio che, qualche secolo più tardi, sarà condiviso e ripreso da Leopardi:
“Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl'infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose.”


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