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TERSITE


Camminava sotto la luce fioca della luna turca. E sotto il peso della sua gobba si dirigeva verso la misera tenda che gli era stata affidata. Trascinava le sue gambe, una dopo l’altra, fissava il mare e guardava le onde. Il mondo da lui vissuto in realtà non gli apparteneva, e continuava a scrutare l’orizzonte, come per cercare qualcosa, come se qualcuno, al di là delle terre, lo stesse aspettando. Ma proseguì nel camminare, continuando ad alimentare la sua grigia vita. Faticava nell’andare avanti: non era più così giovane e la sua andatura claudicante gli riservava parecchi disagi. Piangeva, ma nel silenzio dell’accampamento le sue lacrime chiare passavano totalmente inosservate  al mondo, era troppo diverso per lui, o semplicemente non era giusto. Subiva, ogni giorno, da tutti, e non poteva sopportare tutto questo, voleva cambiare il mondo, illuso, nessuno avrebbe ascoltato un uomo simile. Così, stanco per la lunga camminata, salì sul molo e, con le gambe a penzoloni, si sedette a mirar l’infinito. E pensava. I suoi pensieri erano la sua unica libertà, l’unica cosa che gli permetteva di non essere schiavo di sé e degli altri.
‘’Perché?’’ sospirò lacrimando. E pensò a tutto ciò che potesse esistere oltre il mare. Ma non pensava alla Tebe nutrice di molti o alle vaste terre d’asia, ove i pastori tutte le notti intonano canti alla luna. No, viaggiava oltre. La distesa di nere acque gli permetteva di sognare, di vivere contemporaneamente in un’altra dimensione, e forse era proprio il mare a permettergli di restare in vita, era lui ad innaffiare la sua speranza di vivere in un mondo d’uguaglianza, dove ogni uomo, dallo storpio al vecchio ha la possibilità di dire la propria opinione. E si calmò, la speranza è il farmaco, colei che ti guarisce e ti permette di vivere la vita sapendo che qualcosa, anche un minimo punto, migliorerà; ma è comunque il farmaco, il veleno, che, dove cura promettendo, uccide distorcendo la tua visione della realtà.
E in silenzio, ascoltando il fragore delle onde, iniziò a parlare con il suo mondo:
‘’Come un uomo vive senza il diritto di essere chiamato tale, in subordinazione a deliranti capi militari, senza poter uscire dalla propria condizione, meno uomo di altri già quando la levatrice  gli fa conoscere l’aria pura della terra? Uomo, questo sono, so di esserlo, non meno di un signore di eserciti, non più dello schiavo di un agricoltore. Questo ho, il mio essere. Forgiato dal previdente, intriso del fuoco divino, io lo sono! Tutti lo siamo! E allora mi chiedo, perché il figlio della terra non riesce a vivere in comunità ma necessita di sottomettersi l’un l’altro, con la voglia di prevaricare sul prossimo, convinto di avere davvero qualcosa in più, di essere superiore. Stolti, pazzi, credete davvero che sia la bellezza a mettervi in alto? Può essere la dinastia a crearti migliore? Incredibile il modo in cui sfilate in assemblea, ricchi di abiti purpurei, con corone dorate e pesanti scettri intrisi di pietre preziose. Credete che sia questo a darvi il diritto di controllare la vita altrui, di decidere come i vostri schiavi devono agire, come il mandriano fa con i suoi armenti; credete che questo vi permetta di organizzare ingenti spedizioni per combattere chi, il figlio di un tuo avo. Perché l’importante è accumulare ricchezze, controllare sempre più uomini, l’importante è far capire al vicino chi comanda, innalzando mura, addestrando eserciti, costruendo navi capaci di oscurare tutto l’oceano. Non vi accorgete, non ti accorgi tu, Atride, che stai combattendo contro te stesso, contro la tua viltà, non capace di esternare la propria virtù, ma capace invece di usare gli altri esseri umani, oh sì, quello lo sai fare benissimo, la tua arroganza va oltre ogni limite, sorpassa di gran lunga le colonne d’Ercole. Ma la colpa non è tua, no, la colpa è nostra. Mia, di Panfilo, di tutti quei soldati che t’hanno seguito e che ogni giorno seguono i tuoi ordini. Perché sappi, o Agamennone, la tua spada è affilata come la mia, sarà più preziosa, più costosa, di materiali più raffinati, ma taglia esattamente come quella di ogni altro milite che ora sta dormendo in quest’accampamento, su questa baia sacra; e dalla tua pelle, costantemente ricoperta da morbidi unguenti, profumata a tutte le ore del giorno, sgorga lo stesso sangue che esce dal mio porcaro, impegnato ogni giorno nella sua terra a sguazzare nel fango, con i suoi animali; e il tuo cuore, Agamennone dall’ampio potere, batte lì, nello stesso punto dove il mio, debole e zoppo, svolge il suo compito, dove la linfa vitale circola e dove l’amore risiede. Siamo uguali, tutti. Io e te, Achille glorioso ed il mio schiavo, Odisseo divino e la mia vecchia nutrice. Siam nati tutti da una donna, tutti abbiamo pianto, tutti abbiamo riso, in tutti noi il giovane Eros risiede, e ne siam servi, in eterna tortura. E tu, uomo che non conosce ritegno, pensi di far valere la tua mano sulle infinite genti che popolano la Grecia? Come puoi farlo, la tua forza è contro quella di dieci, venti, mille milioni di uomini forti. Non so come puoi pensare di fare tutto ciò, ma capisco come ci riesci. Perché l’uomo è, nella sua grandezza, l’essere più piccolo che possa esistere, non capace di vivere, se non sottomesso ad un’autorità che imponga il bastone sopra il suo capo. E penso che, se tra gli Achei belli schinieri nessuno abbia pensato a questo, che la felicità di un uomo possa controllare quella di innumerevoli masse, l’uomo è destinato ad essere schiavo, anzi no, l’uomo vuole essere schiavo. Altra risposta non riesco a cacciare dal mio cranio aguzzo in cima, se non questa: preferisce essere comodamente schiavo di un qualsiasi padrone che non padrone di se stesso. Vuol esser legato a princìpi inesistenti che gli diano un leggero giovamento, piuttosto che affrontare la vita per quella che è, con gli occhi aperti, non dando nulla per scontato e non abbassando il capo di fronte al primo degli uomini che si professa come splendido salvatore figlio del dio. O Atride, sono sconsolato e disilluso quest’oggi, e ti parlo con le lacrime agli occhi, sogno una società dove ognuno di noi possa semplicemente essere libero, libero di vivere, solo questo; e dove nessuno abbia bisogno di lottare con l’altro per rendere se stesso più potente, perché ormai consapevole di essere uguale al proprio vicino; dove nessuno sia schiavo, dove nessuno possegga uomini, dove tutti però possano possedere la felicità, uniti, liberi. Io sogno, m’inganno, so che questo non succederà mai, il sogno è solo l’oggetto con cui Zeus fa credere all’uomo di poter capire qualcosa, di poter controllare qualcosa, illusione, pura illusione.’’
Così diceva Tersite che molte parole sapeva in cuore e alzandosi in piedi sul molo nella notte chiara si asciugava le lacrime. Aveva pianto, molto, e non era una cosa che il suo mondo poteva accettare, lo faceva in segreto, di nascosto da tutti, gli uomini erano troppo forti e virili per poter entrare in contatto con se stessi in un modo simile, umiliante, era attività da donne, non da eroi, e lo avrebbe escluso da quello spazio che odiava ma nel quale era immerso; e in piedi sulle sue gambe guardò la luna, spenta e triste tra le stelle, e stette dritto con la schiena, scrutò per l’ultima volta l’orizzonte, il suo orizzonte, e, fatto un respiro profondo, si gettò nel mare risonante, tra le onde scure, nelle quali, in quel momento, ci fu più umanità che in tutte le città della terra.
Antonio Marsicano

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